Mi trovo comodamente seduta sulla tratta del treno Milano-Zurigo in prima classe, come spesso mi succede da più di due anni, per motivi di lavoro. Il treno parte in orario perfetto e sono certa arriverà in tale modo.
Guardo fuori dal finestrino: la grigia e piatta pianura padana della mia infanzia lascia pian piano posto agli ordinati prati verdi su cui pascolano immacolate mucche. La vista si perde sugli specchi d’acqua dei laghi svizzeri, sui quali si riflettono le montagne ricoperte dagli alberi colorati di rosso, giallo e marrone di questo autunno. Un paesaggio da fiaba, ci manca solo la piccola Heidi dei cartoni animati con il suo sorriso. Invece, al posto del sorriso, l’elegante e ingioiellata signora dagli occhi azzurri di ghiaccio seduta nel posto davanti al mio si gira e mi fulmina, nel momento in cui mi azzardo a rispondere al telefono quasi sottovoce, avendo già in precedenza, da Milano, silenziato la suoneria. I suoi occhi e le labbra strette in un atteggiamento pieno di sdegno non mi lasciano, per cui mollo il colpo e interrompo la mia comunicazione. Lo abbozzo io, il sorriso, ma lei si rigira, senza parlare, e torno nel silenzio ovattato, quasi irreale, della carrozza. Peccato, tutto appariva semplicemente perfetto dentro e fuori dal treno, anche il messaggio, ovviamente silenzioso, che appare sullo schermo del mio smartphone, che mi comunica il codice per accedere gratuitamente al wi-fi delle efficienti Ferrovie Svizzere, SBB CFF FFS, che in tedesco non riesco a dirlo.
Solo poche mattine fa mi trovavo in tutt’altra parte del mondo, in uno dei paesi più poveri del pianeta, il Madagascar, dove, per anni, ho condiviso il mio strano percorso di vita insieme a poche migliaia di italiani, che formano, insieme a tutti gli altri residenti all’estero, la lista dell’AIRE, ovvero l’albo degli italiani residenti all’estero. Di noi si parla poco o niente, se non durante le elezioni politiche.
Forse meglio così, anche se in verità delle nostre vite, della nostra perenne malinconia di casa, della fierezza della nostra Madre Patria, della capacità di integrazione e flessibilità di pensiero si potrebbe dire e scrivere davvero tanto. Sono certa, senza averlo mai appurato, che, guardando ogni giorno fuori dalle nostre finestre, la comune domanda della mia comunità in Madagascar sia stata per anni la seguente: “Ma dove sono andati i miliardi di fondi della Coperazione internazionale in questo paese?”. Poi, con il tempo, uno smette di chiederselo. Comunque, camminavo tra le risaie della campagna fuori Antananarivo, tra il rosso della terra, l’azzurro del cielo e il verde delle pianticelle di riso. Gli zebu, immobili in mezzo ai campi ogni tanto muggivano, la musica ritmata e le risate dei bambini del villaggio vicino rallegravano il momento. Mi aspettavo, che vedendomi, I ragazzini corressero verso di me con le solite frasi abbozzate in francese.
E così fu: “Come ti chiami?”, e io “Cinzia. E tu come ti chiami?”, e uno di loro, il meno timido: “Tolotra”, e io: “Quanti anni hai?, e lui si volta verso I compagni e si mettono a ridere….non si ricordano più come si dicono I numeri in francese. Poi abbozza: “Dieci”, anche se magari ne ha undici. Continuano a ridere e mi metto a ridere anch’ io, così semplicemente, in mezzo a quel paesaggio da sogno. “Che ore sono?”, mi chiede. Me l’aspettavo, è la solita domanda che sento da qualche decennio, un po' perchè la lista delle parole in francese è esaurita, un pò perchè nessuno di loro ha un orologio e tanto meno interessa loro averlo, il tempo non ha molta importanza qui. Guardo il mio di orologio e gli comunico l’ora….ricominciano a ridere e io, un po' stupita, ricomincio a ridere con loro.
Poi il solito ragazzino, vestito rigorosamente di stracci e senza scarpe, come gli altri, mi dice: “Sono un bravo calciatore”. “Ah sì? E chi è il tuo giocatore preferito?”, chiedo. “Mbappé”, mi risponde.
Allora mi avvicino di più al bimbo. Tiro fuori il telefono dalla tasca e gli mostro una foto di mio figlio con Kylian Mbappé, scattata qualche settimana fa durante un evento a La Scala di Milano, organizzato da un’importante organizzazione calcistica per cui lavoro, a Zurigo.
Il ragazzo si illumina vedendo la foto, mi guarda con uno sguardo interrogativo. Gli spiego. “Questo è mio figlio con Mbappé”. Lui si scioglie in un sorriso, mi guarda e poi scappa via, forse spaventato da qualcosa più grande di lui. Lo guardo correre via, sorrido, e, con una rinnovata gioia nel cuore, continuo la mia passeggiata mattutina tra le risaie.