L'Eterno Ulisse

Itinerari insoliti nel grande mare della conoscenza

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La dimensione umana

Pi, il Mare e la grande montagna …

L'autore in queste righe ci narra la storia che racconta l'incontro di due persone provenienti da continenti diversi e con lingue differenti. Una storia vera dell'incontro di due soldati con un destino vicino.

di Lucio Cutuli, 10 Aprile 2019
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Molti mi cercano per parlare di PI, ma ho poco da riferire su lui, perché non ho avuto il tempo di ben conoscerlo; poche parole scambiate e qualche momento per guardarci negli occhi. Ci eravamo ritrovati, provenienti da continenti diversi e lontani e parlavamo lingue differenti. Il mio nome è J. Gartley ma, negli schedari militari dell’Ottava Armata, mi riconoscono solo con la matricola 3975350, numero posto prima del nome, sulla mia pietra cimiteriale. Non conosco neanche il territorio che mi circonda, anche se ormai sono settanta anni che vi dimoro. Non ho avuto un istante per godere della bellezza che mi sta intorno, ma ho troppo tempo per sentire sgomento, dolore e mestizia.

Mi potrete trovate nella fila A, prima filiera, che incontrate guardando il sole al settimo posto sul lato destro. È una lapide di pietra bianca la mia, alla pari delle altre 2.138 fosse occupate. Di PI posso dirvi che la sua pietra tombale è fittizia, perché del suo corpo niente fu trovato, tranne la mostrina metallica. È il solo indiano su 2139 supporti bassi, che indicano il riquadro della nostra fossa sotto terra. Lo chiamo Pi perché ha un nome strano; é scritto sulla lapide del 1° battaglione, fila G, n° 10: Neeraru. Nulla più; ma per noi soldati di bassa leva, non serve altro, basta il numero della matricola ed a Neeraru fu assegnata la cifra: 116980. Lui diversamente da noi, non ha altri compagni d'armi del suo paese qui sepolti e forse è il più solo di tutti.

Strano destino è stato il nostro, ne parlo nella speranza che forse oda la mia voce e possa sentirsi così meno solo.

Quando ci prepararono per iniziare l’offensiva militare sulla Sicilia e ci allinearono al bordo della pista per l’imbarco, si accorsero che mancavano ancora otto militari per fare il pieno carico sull’aereo. Il sergente sbraitò tanto forte che in poco tempo arrivarono quelli mancanti sistemandosi in coda alla serie.


Dalla mia posizione potei adocchiare l’ultimo arrivato: l’ottavo. Fu durante questo evento che notai PI. Era giovane quasi come me, un geniere dalla carnagione color cioccolata al latte e dal viso ornato da due occhi lucenti e scuri, che raccontavano lo scompiglio che vivevano, la paura mal celata di un essere spaesato, di uno straniero in campo nemico. Ci ritrovammo nella fusoliera dell’aereo seduti scomodi e vicini, tra un rombo tremendo dei motori ed un habitat ferroso e freddo.

Dai finestrini dell’aereo si vedeva poco, solo settori di mare, solo acqua a perdita d’occhio. PI chiese se ci fossero foreste dove saremmo scesi, se sarebbe stato facile trovare frutti e tuberi, perché non gradiva il rancio che veniva servito nella mensa militare. Poi, lontano apparve l’isola: la Sicilia. L’aereo rollava, le eliche avviluppavano le turbolenze e davano scosse fastidiose ai nostri adattamenti. Sorvolammo un lembo di terra e il capitano ci fece agganciare la cordicella dei paracaduti alla sbarra tirante; poi aprirono il portellone di coda dell’aereo e PI stavolta stava davanti al mio petto. Diceva di essere contento perché sapeva che sotto c’era il mare e che, se fosse andata male, si sarebbe posato sul morbido … Aveva fatto pochi voli e limitati lanci. La carlinga, disadorna e solo dotata nell’essenziale, ci faceva stimare ancora più pesante l’armamento e il corredo di guerra indossato. Neeraru aggiunse che tutto sarebbe passato in fretta ed era convinto che avrebbe trovato molto verde ad accoglierlo. Abbozzò una smorfia di sorriso e aggiunse che avevano scelto male il giorno per sferrare l’attacco; scendeva acqua dal cielo, mentre in basso le onde si alzavano sempre più alte. Concluse che, se fosse arrivato prima, avrebbe preparato una buona accoglienza per me.

Notai che i suoi occhi scuri sembravano ancora più lucidi. Si udirono alcune voci concitate: era il segnale per paracadutarci. Poi il salto nel vuoto e davanti gli occhi apparve una grande montagna, enorme, maestosa: l’ Etna.

Si scendeva oscillando a capriccio del paracadute. Il paesaggio però si scostava dalle foto che avevamo osservato durante l’addestramento. Sotto di noi forti pendii senza sentieri e la gola profonda di un fiume confermavano la scarsa competenza di E. J House, comandante dell’Ottava Armata, nel paracadutare le truppe. La forza del vento tendeva a spingerci all’indietro, in quel cielo carico di vento e di proiettili di mitraglia e tutto ciò non era un emozionante benvenuto. I capi avevano giocato una carta imprudente sulla nostra pelle. Ci aviotrasportarono e paracadutarono con un meteo sfavorevole convinti di cogliere il nemico di sorpresa e risolvere la battaglia a proprio favore. Il vento non fu nostro amico e ci spinse in una zona dove non eravamo graditi, più vicino ai soldati nemici. In un attimo cambiò tutto come se il vento diventasse più turbolento e spostasse avanti ed indietro tutti noi, tra boati e scoppi che confondevano il cervello e il corpo. Vidi PI come se balzasse all’indietro centrato dal fuoco di sbarramento, che lo smembrò. Si confusero il petto, le gambe e sembrò che le budella filassero come spago: niente restò intatto, non trovarono niente. Forse solo gli occhi gli rimasero integri; non ebbe il tempo di chiuderli, perché vedevano ancora un mondo scomposto e cercavano una foresta dove potevano adagiarsi su un prato verde e disappannarsi per lo spavento. Si consumarono in un istante i sogni, l’amore, le carezze, gli affetti. Tutto spezzato, restò intatto solo nel cuore dei nostri cari, nei paesi lontani. Lo sgomento, il disagio, la paura e la morte furono vissuti in comune e PI, anche se non lo trovano, è qui ancora a vagare. Nell’alba seguente, un proiettile colpì e frantumò il mio cuore: sebbene io lo sentissi piccolo piccolo riuscirono a centrarlo spegnendomi la vita.

Ormai sono settant’anni che non mi allontano da questo punto; ho questo da raccontare e solo a quelli che trovandosi a passare per questo luogo, al segnale - ricordo della tomba qui di fronte, sostano qualche istante. Le pietre tombali sono avvolte da una storia di mestizia; alcune non portano nome, coprono ignoti; le loro ossa – chissà dove - appartengono a nessuno. A T. M. Rowwlands, la carne è stata ridotta a brandelli come tritata ad appena 17 anni. Nelle guerre i soldati valgono meno della carne da macello. Qualche volta all’addetto alla sorveglianza del sacrario, sig. Quaceci, arrivano buste con denaro. Lettere inviate da lontani familiari che invitano a mettere un fiore fresco sulla lapide dei loro congiunti. Egli lo fa con meticolosità. Per PI, e anche per me, di queste lettere non ne sono mai arrivate, ma un cespo d’erba sempre verde, l’abbiamo anche noi posta davanti la pietra cimiteriale. Sulla mia lapide è segnata anche una Croce, in quella di Neeraru solo l’accenno del nome. Con la Croce marcata, io posso sperare in qualche preghiera cristiana …… per lui ….?

Da oltre settant’anni sono fermo in questo luogo e parlo solo quando qualche raro visitatore mi rivolge il suo sguardo. Era il 29 luglio 1943 ed avevo vent’anni, la guerra aveva bisogno anche di noi e con il sangue delle mie vene bagnai un po’ di terra, che è anche tua … in una valle diventata di sonni eterni, vicino alla montagna di neve, oltre i campi verdi.

Mia madre e mio padre, vollero che si scrivessero le seguenti frasi sulla mia lapide di pietra bianca: “Through valley of blood, over mountains of snow to the green fields beyond”.

Abitare In Salute
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