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I sentieri della memoria

Pasqua : le radici ebraiche della fede cristiana

Pasqua, un termine tanto usato ma che, forse, associamo oggi più facilmente alle uova di cioccolato che alla grande tradizione religiosa dell’occidente. Rigel Langella, nell'articolo che segue, ne ricostruisce la storia, recuperando le radici ebraiche della fede cristiana.

di Rigel Langella, 27 Marzo 2013
TAG  pasqua  tradizioni  cristianesimo 

crocifissione bianca
Crocifissione bianca di Marc Chagall, 1938

Le celebrazioni della Settimana santa vedranno i cattolici uniti attorno al nuovo papa Francesco. Nel rispetto del periodo di riflessione e silenzio Bergoglio ha rinviato a dopo Pasqua tutte le decisioni che erano poi quelle più attese dai media, ossia le nomine dei futuri collaboratori o, secondo altri, il redde rationem.

Nel mondo cristiano la data della Pasqua varia ogni anno secondo la luna e con date diverse nelle varie chiese. Vediamo allora di risalire a questo evento fondante della fede ripercorrendo la storia delle tradizioni che ci hanno portato al presente.

In origine il termine ebraico biblico pesah, significa semplicemente passaggio. La festa arcaica era collegata alle tradizioni pastorali dei popoli nomadi che, in primavera, andavano in cerca di nuovi pascoli erbosi. Nel libro dell’Esodo, al capitolo 12 e 13 la celebrazione della pasqua ebraica si colloca già al cuore dell’esperienza del popolo d’Israele, perché connessa all’evento fondante della propria fede: l’uscita dal paese d’Egitto, simbolo della schiavitù, e alleanza con Dio, nella libertà ritrovata.

“Il Signore disse a Mosè e ad Aronne nel paese d’Egitto: questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno” (Es 12, 1-2).

La pasqua giudaica con l’immolazione dell’agnello e i sette giorni degli azzimi, prefigura la pasqua cristiana con il Cristo, agnello di Dio immolato e la pari durata della settimana santa, tempo di purificazione che culmina con la festa della risurrezione e quindi della vita che trionfa sulla morte, della luce che torna dopo le tenebre della notte.

Quando la famiglia si riunisce attorno alla mensa (seder) il padre istruisce i figli, spiegando il significato degli atti di culto, rappresentati dall’agnello intero, dalle erbe amare con la salsa di aceto, dalle uova, dalla benedizione del vino. Il temine “memoriale” (zikkaron) che non significa ricordare vagamente un lontano evento del passato, ma rivivere, qui e oggi, un’esperienza di salvezza, attualizzata nei riti tramandati di generazione in generazione.

La riscoperta dei simboli del rito biblico è la base indispensabile per comprendere significato e valore della pasqua cristiana, la valenza salvifica della morte di Gesù Cristo. Gli esegeti sono concordi nel ritenere che i testi dei quattro vangeli canonici sono solo un racconto ampliato, secondo la sensibilità dei singoli autori, della passione, culmine della predicazione e dell’attività pubblica di Gesù di Nazareth. Il tema pasquale fa da sfondo alla narrazione giovannea: “Prima della festa di pasqua, Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano al mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13, 1). In questa rilettura teologica Giovanni colloca la morte di Gesù nel momento in cui vengono uccisi gli agnelli nel tempio (cf. Gv 18, 28).

Dico volutamente rilettura “teologica” perché diversamente, con nessun altro criterio ermeneutico, potremmo comprendere il problema dell’effettiva datazione della Pasqua e la conseguente data della celebrazione ai giorni nostri, che non è né semplice né univoco. Per gli ebrei la data è fissata al quindicesimo giorno del primo mese di primavera il mese di Nisan. Eppure nel mondo cristiano la data cambia. Perché i vangeli scrivono che il maestro consumò la cena pasquale prima di venire arrestato, mentre in un’altra pericope scrivono che fu sepolto in fretta a causa della festa che cadeva al tramonto di quel giorno? Di spiegazioni ne sono state date tante, e anche di più, ma nessuna ha superato l’incongruenza, l’aporia, come nessuna spiegazione supera l’incongruenza della data di nascita di Gesù, anche se questa è un’altra storia.

Dopo la scoperta dei misteriosi papiri di Qumran e della ascetica comunità di Esseni che vivevano nel deserto vicino al Giordano, alla quale apparteneva, come pare ormai certo, anche Giovanni Battista, infine tradotti e pubblicati, si conoscono, oltre ai testi biblici in ebraico arcaico, la regola della comunità e il calendario liturgico. Alcuni studiosi hanno rilevato che la Pasqua della comunità, secondo il calendario della Yahad, veniva celebrata due giorni prima della pasqua ufficiale in Gerusalemme. Per cui la discrepanza sarebbe così colmata, perché in un caso si parlava della celebrazione degli Esseni, forse seguita anche dai discepoli, e nell’altro delle celebrazioni ufficiali nel tempio di Gerusalemme.

Comunque, poiché i racconti dei vangeli non sono un racconto storico come la storia delle battaglie di Napoleone o la scoperta dell’America, ma una storia di salvezza, che dicono quanto serve a questo scopo, la rilettura teologica serve a comprendere che molte cose sono state scritte per l’edificazione della comunità alla quale era rivolto il testo, quindi con un intento pastorale e non di resoconto di cronaca giornalistica. Le discrepanze, allora, non sono un segno di contraddizione, ma il tentativo faticoso degli agiografi di dare una spiegazione dell’evento tragico e inaccettabile della morte ignominiosa sulla croce, come rilettura del sacrificio pasquale, sovrapponendo alla pasqua ebraica la pasqua cristiana, con l’evento di morte e risurrezione, con la settimana che culmina nel venerdì santo di passione fino alla domenica di glorificazione del Redentore.

Le chiese cristiane ortodosse che non hanno adottato nel calendario liturgico la riforma del calendario gregoriano, voluta da Gregorio XIII nel 1582 ma seguono ancora il calendario giuliano, festeggiano la ricorrenza in una data diversa rispetto alla chiesa latina di Roma. Del resto tra il IV e l’XI secolo, fattori culturali e politici determinarono il progressivo distacco tra Roma e Costantinopoli, i due polmoni occidentale e orientale della cristianità, sfociando nella separazione sancita nel 1054 e mai ricomposta.

La Pasqua è una festa mobile che dipende dalle fasi della luna: il giorno di Pasqua coincide con la prima domenica dopo la luna piena successiva all’equinozio di primavera. Quindi oscilla tra il 21 marzo e il 25 aprile. Per questo la pasqua ortodossa cade in diversa data, anche se ogni tanti anni le date finiscono per coincidere, come è avvenuto per l’ultima volta nel 2010, mentre quest’anno dalla Grecia alla Russia la festività cade per i Cristiani d’Oriente il 5 maggio. La Pasqua ortodossa cade la domenica che segue la prima luna nuova dall'equinozio di primavera.

Specialmente in Russia il popolo è tornato a sentire fortemente il richiamo religioso, dopo lunghi anni di silenzio. Per la chiesa ortodossa la pasqua è la festività più importante, basti pensare che la parola domenica, per noi “giorno del signore” dal latino, si dice in russo: voskresienje, che significa “risurrezione”. Le chiese ortodosse, dalla Russia alla Grecia, dopo l’austera quaresima con la pratica del digiuno e dell’astensione da cibi come carne, formaggi, uova, alcolici e dolci, si riempiono di candele accese che illuminano l’iconostasi, con le sue icone dai riflessi d’oro puro, che fanno da sfondo alla complessa liturgia pasquale. I paramenti sontuosi, la suggestione dei canti, la partecipazione dell’assemblea riunita conferiscono una ieraticità toccante al rito nel suo complesso. Nell’iconografia bizantina, a differenza delle grandi risurrezioni dell’arte classica dell’occidente, non abbiamo un’immagine della risurrezione. Il ciclo pasquale è rappresentato dall’ultima cena, crocifissione, discesa agli inferi, ascensione, pentecoste. Il mondo bizantino, come scrive con magistrale sapienza lo storico Gaetano Passarelli, autore di pregevoli volumi sulla spiritualità e l’arte dell’icona, non rappresenta mai il crocifisso nel “realismo della carne spossata e morta nell’agonia. Pur essendo morto, il Cristo non ha perduto nulla della sua regale e divina nobiltà. Giovanni Crisostomo, a tal proposito ha scritto: io lo vedo crocifisso e lo chiamo Re” (G. PASSARELLI, Iconostasi, Mondadori, Milano 2003, pp. 234-235).

Le celebrazioni, oltre alla valenza religiosa, hanno una costante socioculturale di coesione della singole comunità, anche se oggi, persi i riferimenti simbolici, sradicate le comunità contadine, molti riti di passaggio, come quelli ben raccontati da Frazer, sono rimasti quali scatole vuote, forse di impatto folklorico, per non dire turistico. In ogni caso, però, anche i cibi tipici e tradizionali, dall’agnello all’uovo, simbolo di fecondità e di vita che si rinnova, conservano evidenti echi delle antiche e remote tradizioni dei nostri fratelli maggiori e precursori nella fede.

La incomparabile celebrazione della Via crucis al Colosseo in Roma, capitale della cristianità, con la suggestione del sito archeologico coevo alle origini del cristianesimo, le profonde riflessioni, la partecipazione del Pontefice, la corale presenza del popolo di Dio, ne fanno un evento di elevata spiritualità, seguito con un’emozione del tutto diversa, per i suoi significati profondi, che lo rendono davvero unico.

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