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A tu per tu con la morte: come vivere sereni l’ultimo viaggio

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sul numero 17 de "L'Eterno Ulisse"

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di Daniel Tarozzi, 9 Aprile 2018
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Abbiamo visto nelle scorse pagine come la salute, l’alimentazione, il movimento e la meditazione siano fattori integrati e come in questa società si dedichi molta attenzione alla lunghezza piuttosto che alla qualità della vita. Ora affrontiamo un altro aspetto praticamente ignorato nel nostro mondo contemporaneo: la morte. Su questo tema vi riportiamo l’esperienza di Daniela Muggia, tanatologa, che abbiamo incontrato per affrontare con lei le proposte di questa disciplina così interessante e così poco conosciuta. L’Accompagnamento Empatico della Fine della Vita – o “ECEL®”, come lo ha definito Daniela, è un approccio che ha radici sia occidentali che orientali, nel quale le più recenti scoperte neuroscientifiche e la sapienza tibetana si incontrano al fine di infondere serenità in chi si appresta ad affrontare l’ultimo viaggio.


Nils von Dardel, Il dandy morente

«Quando nasciamo non sappiamo se studieremo, non sappiamo che lavoro faremo, non sappiamo se ci sposeremo, ma sappiamo che moriremo – eppure la morte, con tutto quello che la circonda, è stata davvero rimossa dalla nostra civiltà ed è rimasta un grande tabù».

Le parole di Daniela Muggia mi riecheggiano ancora nella testa diversi giorni dopo il nostro incontro. Sì, la morte è l’unica certezza di questa vita e, come diceva il grande Totò in una celebre poesia, la morte è una livella che si porta via ricchi e poveri, potenti e sconosciuti, senza alcun tipo di discriminazione.

Eppure, questa fase inevitabile della nostra esistenza è stata totalmente cancellata dalla nostra quotidianità. Già Ugo Foscolo, a inizio 1800 – durante la scrittura dei suoi “Sepolcri” – notava come i cimiteri in passato fossero stati realizzati nel centro delle comunità, per essere poi progressivamente allontanati e posti fuori dalle cinte murariei.

La scusa ufficiale era quella del motivo sanitario, ma l’effetto prolungato e permanente che si è innestato è stato la creazione di un vero e proprio tabù. I nostri bisnonni facevano anche dieci o dodici figli e – purtroppo – alcuni di essi morivano in tenera età. Era un grande dolore, ma la vita andava avanti. Allo stesso modo, quando un anziano se ne andava non c’era quasi mai il tempo di fermarsi a soffrire perché, contestualmente, una o molte altre vite stavano nascendo (si veda l’inizio di Cento anni di solitudine per avere un esempio di quanto appena scritto). La morte era quindi qualcosa di normale, di naturale.

Oggi no. Oggi di morte non si parla, non si “vede”, o fa scalpore, nei telegiornali (persino le immagini di guerra sono state “ripulite” dai cadaveri). La morte è vissuta come qualcosa di inconcepibile, da allontanare il più possibile e negare con tutte le nostre forze.

E così accade che gli anziani invecchino – e spesso muoiano – soli. Accade che i malati terminali muoiano ancor prima di smettere di vivere. Accade che sia i morenti che i loro cari non abbiano alcun accompagnamento in questo difficile percorso, nessuno strumento medico, umano, pratico e spirituale per gestire al meglio questo fondamentale ed inevitabile passaggio.

Ecco perché, mossi da stupore e amarezza di fronte a questa situazione e stanchi di non avere alternative, abbiamo deciso di incontrare Daniela Muggiaii, tanatologa, per affrontare con lei gli interrogativi qui sopra accennati e per scoprire quali siano le proposte di questa disciplina così interessante e così poco conosciuta.

«Quando ci chiamano nelle scuole primarie perché magari c’è stato un lutto che ha colpito una classe – ci spiega Daniela – troviamo insegnanti e genitori che non sanno come gestire la cosa e che spesso credono che sia meglio non parlarne, lasciando così i bambini alle prese con qualcosa che non capiscono senza avere la conoscenza di come stare di fronte la morte». Qui, come negli ospedali, come negli studi veterinari, come nella vita di tutti quanti, diventa utile conoscere la tanatologia.

La tanatologia

La tanatologia (dal greco thànatos (θάνατος) “morte”, e lògos (λόγος) “discorso” o “studio”) è la scienza che studia la morte dal punto di vista fisico, psicologico, sociologico, antropologico e spirituale. Questa disciplina si occupa anche della ritualità che caratterizza questo passaggio e delle strategie che, nel mondo, gli umani hanno messo a punto per elaborare il lutto. Daniela, formatasi alla scuola di Cesare Boni, si definisce “una tanatologa militante, ossia che sceglie di accompagnare davvero la fine della vita ed il lutto”. La Tanatologia moderna, fondata da una “militante della prima ora”, la dottoressa Elisabeth Kübler-Ross, studia l’immediato “prima”, il “durante” e il “dopo”, si interroga su cosa avvenga durante la morte, su cosa dica la scienza e su quali siano le soluzioni proposte dalle diverse tradizioni in risposta a un passaggio così critico. La tanatologia di per sé non è legata ad una credenza specifica, ma anzi cerca di studiarle tutte, compresa l’assenza di credenze. Daniela, in quasi trent’anni di studio, ha scelto di approfondire principalmente la tanatologia tibetana, che ci è giunta intatta: è uno dei corpus più sviluppati, insieme a quelli del Messico centrale.

Nel 2004, inoltre, ha messo a punto il metodo ECEL®, Empathic Care of the End of Life (Accompagnamento Empatico della Fine della Vita), un approccio fondato su due radici: una occidentale, costituita dalle più recenti scoperte neuroscientifiche e neurocardiologiche, e basata sul cambio di paradigma imposto dalla fisica quantistica; l’altra orientale, costituita dalle tecniche e dalla sapienza della tanatologia tibetana in parte descritta nell’ottimo Il Libro tibetano del vivere e del morire, di Sogyal Rinpocheiii.

Un approccio basato sull’empatia e la compassione

«L’approccio tibetano – continua Daniela – è particolarmente interessante per chi accompagna i morenti. Parte, infatti, dalla constatazione che quest’ultimi, quando l’estremo passaggio si avvicina, ritrovino il grado di empatia che avevano quando erano bambini». Bambini e morenti, guarda caso, proprio perché ovviamente più fragili e bisognosi, hanno a disposizione questo straordinario strumento, lo stesso che permette a una muta o a un gruppo di animali di cacciare insieme, di collaborare, insomma, per sopravvivere.

«Ecco perché gli accompagnatori che si formano con il metodo ECEL si addestrano a ritrovare delle capacità di comunicazione empatica molto forti, che dopo l’infanzia finiscono in sordina: queste, durante il caos prodotto dalla fine di una vita (tra terapie, controterapie, ospedali, casa, cure ufficiali e alternative, indecisioni e paure) aiutano il paziente a morire in pace. Come accade? Anche quando egli non è più in grado di comunicare, infatti, il suo potenziato stato di ricezione empatica è in funzione, e se chi gli è intorno riesce ad entrare in uno stato di pace interiore e a mantenerlo qualsiasi cosa accada, il trapasso avverrà in modo sereno. Sembra l’uovo di colombo: se io sono in pace, il morente muore in pace. Sembra, ma non lo è, perché con tutto il caos relazionale, economico, emozionale e curativo che c’è intorno alla morte, per essere in pace occorre che io – l’accompagnatore – abbia un addestramento semplicemente... di ferro».

Una sfida davvero difficile considerando che non basta “mostrare serenità” ma è necessario incarnarla veramente se vogliamo aiutare la persona in questione.

Accanto all’empatia, inoltre, è necessario sviluppare la compassione: «L’addestramento all’empatia non è sufficiente di per sé, giacché anche un torturatore è un maestro di empatia: ce ne vuole un bel po’ per sapere fin dove spingersi e ritirarsi appena poco prima che la vittima muoia e il terrificante “gioco” finisca. L’empatia di cui abbiamo bisogno deve essere dunque eticamente orientata alla compassione. E le neuroscienze dimostrano ormai come questi due stati, empatia e compassione, abbiano origine in parti distinte del nostro cervello. Quindi, essendo il cervello neuroplastico, ci vorranno, per sviluppare le due aree ad essi preposte, due diversi addestramenti. Ed è proprio quanto ha sempre proposto la tanatologia tibetana: due addestramenti che ad un certo punto si prendono per mano».

L’Associazione Tonglen ONLUS per l’Accompagnamento empatico dei morenti e delle loro famiglie

Daniela ha iniziato ad occuparsi attivamente di Accompagnamento dopo la morte del padre. In quel periodo studiava già da tempo con i tibetani. Racconta: «La morte di mio padre sarebbe dovuta essere qualcosa di disperato, terrificante, difficile. Io l’ho accompagnato con quello che avevo compreso, con i primi strumenti ancora incompleti, e quello che ho visto mi ha convinto che erano ottimi. Perché anche se il cuoco è inesperto, se gli ingredienti sono eccellenti il cibo sarà buono. E malgrado io abbia fatto molti errori in quel primo accompagnamento, il suo passaggio è strato straordinario. Malgrado me. E mi sono detta che questo non poteva restare un caso isolato, che morire bene era, ed è, un diritto fondamentale dell’uomo, come le pari opportunità, come l’assistenza sanitaria. Una morte dignitosa, quieta, lucida, ispirata e ispirante, provoca un’elevazione collettiva di tutta la famiglia. Ho quindi iniziato a studiare di più, ho incontrato Cesare Boni, che è stato uno dei miei principali maestri: con lui ho fatto il corso di perfezionamento – oggi si direbbe “un master di secondo grado” – in Tanatologia alla Federico II di Napoli. Più tardi ho sviluppato gli studi neuroscientifici».

La nascita di un gruppo che lavorasse su questa tematica a quel punto era quasi inevitabile. Così un gruppo di volontari a Torino fonda l’associazione Tonglen. «Si rivolgono a noi persone con diagnosi di malattia terminale, e a volte ovviamente abbiamo il piacere di accompagnarle anche verso una remissione. In tutti i casi, aiutiamo il paziente, quando è ancora in grado di esprimersi, ad affrontare i sospesi della sua vita. Sia quelli relazionali che quelli pratici. Il modo in cui una diagnosi viene comunicata fa la differenza, ma ancora troppi pochi medici ne tengono conto. Noi ci troviamo spesso davanti a persone smarrite, spaventate, in uno stato di grande agitazione, dolore, paura, confusione, anche perché non hanno mai pensato alla morte come ad un’evenienza che potesse colpire proprio loro, magari ancora così pieni di progetti, nel fiore della vita. Quando accompagniamo qualcuno teniamo conto dell’interdipendenza del proprio ambiente affettivo e in qualche modo diventiamo i portavoce del malato nei confronti dei suoi cari, cercando di comporre i conflitti e di far rispettare il suo volere; siamo anche prodighi di informazioni pratiche, per esempio circa le cure palliative, un diritto di cui molti ignorano ancora l’esistenza, anche tra i medici di base.

Le tecniche meditative con cui ci addestriamo non sono finalizzate a ottenere una mezz’ora di rilassamento, ma a una profonda trasformazione della mente destinata a “stingere” su ogni azione che compiamo, e quindi accade che si sia parecchio contagiosi. Ci serviamo consapevolmente del campo elettromagnetico del cuore, dei neuroni specchio e così via, per riuscire in questo compito. Quando questo avviene assistiamo a quelle che noi chiamiamo “le morti alte”, nel senso che sono elevatissime, e le testimonianze che abbiamo sono molto belle sia da parte delle persone che vengono accompagnate, che da parte dei loro famigliari e – in alcuni casi – persino dai loro curanti».

La meditazione

Oggi ci sono circa quindici persone attive nell’accompagnamento empatico all’interno dell’associazione, più una sessantina di altre che, negli anni, si sono formate ma al momento non possono o non si sentono di eseguire personalmente un accompagnamento. Costituiscono però un gruppo che pratica alcune tecniche meditative tradizionali, che sono di sostegno al malato quanto all’équipe che lo accompagna, ai medici che devono fare degli interventi terapeutici e alla famiglia.

«Queste meditazioni a distanza – ci spiega Daniela – secondo la tradizione sarebbero altrettanti input positivi e amorevoli nei confronti di una data persona con i quali verrebbe nutrito il campo quantico, inteso, come lo intendono ormai molti scienziati, come un campo di informazioni altamente cognitivo. Sappiamo bene che questi intenti sono come un granello di sabbia se paragonato all’immensità del deserto, ma sappiamo anche che basta variare un addendo di pochissimo per cambiare il risultato di un’addizione lunghissima...».

La meditazione, essendo uno stato sovrapponibile ad ogni altra attività, consente a Daniela e ai suoi compagni di avventura di svolgere un volontariato così impegnativo senza essere travolti dal dolore. L’addestramento meditativo che insegna la Muggia, infatti, permette di esporti alla sofferenza dell’altro senza temere la fusione, ed è quanto ha fatto il successo dei suoi corsi per medici e infermieri e, in generale, per chi lavora nella relazione di aiuto. Proprio chi è quotidianamente esposto al dolore, infatti, è maggiormente a rischio di burn-out. Ma con il duplice addestramento alla meditazione che sviluppa empatia e a quella che sviluppa la compassione si ha un abbassamento di conflitti relazionali, spesso causa prima di stress, grazie a una diversa percezione delle cose del mondo.

Accanimento terapeutico ed eutanasia: due facce della stessa medaglia?

In una società incentrata sulla quantità piuttosto che sulla qualità della vita, temi come l’eutanasia attiva e l’accanimento terapeutico suscitano spesso dibattiti violenti. L’approccio proposto da Daniela Muggia non propende per una delle due posizioni, ma tende a prendere le distanze da entrambe.

«Di fronte all’approccio da avere nei confronti di una persona gravemente malata noi proponiamo una terza via – ci spiega la tanatologa – quella della desistenza terapeutica. Questa, unita alle cure palliative e a determinate pratiche meditative, consiste nel desistere dal fare gli interventi “inutili”, come ad esempio cure invasive o esami eccessivi in un malato stanco ed evidentemente arrivato a fine corsa, mantenendo invece tutti quelli che possono essere utili alla qualità della vita residua come le cure palliative, che permettono di tenere sotto controllo i sintomi della sofferenza fisica o psichica e l’accompagnamento empatico eticamente orientato alla compassione che permette di affrontare quell’altra parte enorme di sofferenza comunicativa, sociale, relazionale e così via».

Quanto al problema dell’eutanasia attiva, è un bisogno che spesso evapora davanti a un accompagnamento efficace. Soleva dire Cesare Boniiv che la sofferenza del malato terminale è per il 30% dolore fisico, e qui devono intervenire le cure palliative in cui si inscrive la battaglia, appena iniziata, per metterle alla portata di tutti e non solo di poche categorie di malati, ma anche per poter fare uso di varie sostanze psicotrope al momento non consentito. Il restante 70% (sofferenza comunicativa, sociale, relazionale, e così via) può essere lenito con l’accompagnamento. «Ascoltare il malato da uno stato profondo spesso ci rivela la sua profonda saggezza, una resilienza straordinaria di cui egli non è consapevole; quando queste cose emergono, gliele restituiamo in modo che ne prenda coscienza. Mi è capitato di incontrare malati che si sono scoperti un ultimo ruolo: permettere agli altri di esercitare la compassione su di loro. E questo ha reso per loro la vita residua così preziosa che non hanno più parlato di eutanasia attiva. Allora ho assistito ad una “morte alta”, unita a gratitudine per aver assaporato questo ruolo qualitativo alla fine della propria storia, per il tempo rimasto. Con questo però va detto che nessuno può permettersi di giudicare, e nessuno dovrebbe decidere per gli altri. Il malato ha, in sé, una natura saggia e buona, ed occorre semmai aiutarlo a mantener le redini della propria vita fino alla fine».

Daniela non lavora solo con gli esseri umani, ma anche con gli animali. Qui la medicina palliativa è ancora ai primordi. Per fortuna sempre più veterinari stanno sviluppando questo settore. Tra questi Stefano Cattinelli, che ha anche scritto con Daniela Muggia il libro Tenersi per zampa fino alla fine. Anche in questo caso è fondamentale lavorare sullo stato di pace di chi è accanto all’animale. Quest’ultimo non ha paura della morte (non ne possiede il concetto), ma ha paura della sofferenza. Tenere sotto controllo il dolore fisico e facilitare la sua quotidianità con una serie di accorgimenti, però, non basta: è altrettanto importante, come per i morenti umani, “saper diventare pace”, perché gli animali sono empatici. Lo sono sempre, non solo in certe fasi della vita. Per cui quando stiamo loro intorno disperati perché ci sentiamo impotenti, perché vorremmo che ci dicesse dove ha male, perché magari nella sua perdita imminente riecheggia un nostro lutto, o perché non disponiamo di un veterinario sensibile all’uso di antidolorifici e propenso invece all’eutanasia anche quando l’animale potrebbe vivere il suo tempo di vita naturale senza grossi problemi – circondato dalle persone che ama e a cui ancora dare il suo amore – egli diventa, essendo empatico, tutte queste nostre ansie e paure. Un dono avvelenato e inconsapevole, di cui davvero non avrebbe bisogno!

Il codice etico deontologico dei veterinari considera l’eutanasia un atto di compassione. In realtà – secondo Muggia e Cattinelli – la compassione dovrebbe, come per gli umani, desistere da ogni trattamento o esame invasivo e inutile, tenere sotto controllo i sintomi fisici, e soprattutto non trasmettere loro ansie e paure che non avrebbero, imparando a infondere pace, in modo che il nostro amico animale muoia serenamente.

I veterinari sono peraltro le seconde vittime di un uso per nulla centellinato dell’eutanasia, perché di solito hanno abbracciato la loro professione per aiutare gli animali e non per sopprimerli; la facilità con cui si rinuncia alla palliazione in favore dell’eutanasia è probabilmente tra le cause principali dell’altissimo tasso di suicidi tra i medici veterinari. E le terze vittime sono gli amici umani di questi animali: essi arrivano alla fine della vita, quando ogni loro azione, anche quelle rimosse, viene a galla, con una disperazione intatta per aver acconsentito a una decisione che, subito dopo averla presa, ha scatenato un conflitto interiore. Conflitto che dovremo aiutarli a risolvere altrimenti non moriranno in pace per niente.

Morte: prima, durante e dopo...

Abbiamo affrontato lungamente l’accompagnamento alla morte. Ma Daniela ci ha anticipato che parte del lavoro avviene anche durante e dopo il trapasso. «Dopo la morte della persona seguita, bisogna occuparsi del lutto di chi rimane. A questo proposito – spiega Muggia – proponiamo una serie di tecniche che aiutano ad accompagnare ancora l’essere che se n’è andato qualsiasi cosa diventi: c’è chi crede nell’inferno, nel paradiso, nel nirvana, in nulla. Ognuno ha le sue credenze. Quel che sappiamo con certezza è che in natura nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Possiamo quindi immaginare che la cognitività di questa persona possa essere riassorbita nella cognitività del campo quantico. È una visione tradizionale che si può spiegare in questi termini, oppure ricorrendo all’idea di coscienza non locale, ossia non limitata ad essere un prodotto del cervello, come dimostrano le NDE di persone nate cieche, che non hanno mai neppure fatto dei sogni visivi ma che, una volta accertata la morte clinica (con le attività del cuore e del cervello ridotte a una linea piatta), hanno avuto la ventura di fare ritorno. E hanno raccontato per filo e per segno quello che avevano “visto” in sala operatoria dopo essere stati dichiarati mortiv.

Noi accompagnatori non diamo connotati religiosi a nulla: lasciamo sempre che a guidare sia il morente, e se ha delle convinzioni fideistiche che possono essergli di sostegno ben vengano. E la stessa cosa facciamo accompagnando il lutto. Per chi vuole, proponiamo delle tecniche di meditazione, che si fanno per i 49 giorni che seguono la morte di un essere umano o di un animale, provenienti dalla tanatologia tibetana.

Quanto a ciò che avviene durante... Il tema è troppo complesso per affrontarlo in questo articolo. Lo affrontiamo però insieme al dottor Thupten Tenzin, medico in medicina allopatica oltre che in medicina tibetana, in un apposito seminario, Il processo della morte nella visione tibetana, molto intenso e sempre frequentatissimo; il prossimo sarà a Torino il 27, 28 e 29 aprile 2018, presso l’associazione Tonglen.

Io, ad esempio, ho paura della sofferenza che precede la morte, ma non della morte. Non ho paura di dissolvermi, anzi lo auspico. Perché non ne ho una visione né materialista né nichilista... Per altri però può essere più forte la paura della dissoluzione che non quella della sofferenza, come il tale a cui il Dalai Lama rispose: «Non ti preoccupare. Basta un raggio di sole per far evaporare una piccola goccia, ma se essa si unisce all’oceano cosa diventa? Diventa oceano. La tua coscienza circoscritta sarà... promossa ad oceano. Non vi è da rallegrarsi per questa promozione?».

Nella tradizione tibetana il momento della morte è studiato approfonditamente e lo si affronta in uno stato cosciente. Ma qui davvero attraversiamo un’altra porta. Una porta che attraverseremo nel prossimo numero de l’Eterno Ulisse.

Per approfondire

www.tonglen.it

www.danielamuggia.it

Facebook/com/DanielaMuggiaTanatologa

NOTE

1) L’editto di saint Cloud, emanato in francia nel giugno del 1804 (rinnovando, di fatto, precedenti legislazioni austriache) fu esteso in italia nel settembre del 1805. La legge imponeva che i cimiteri fossero posti lontano del centro abitato: un provvedimento non condivisibile nella nuova concezione del foscolo, in quanto teso ad allontanare vivi ed estinti, non favorendo la commemorazione di questi ultimi.

2) daniela Muggia è tanatologa, docente nel Master di II grado dell’Università Roma3 in Accompagnamento empatico del morente. Pedagogia e Tanatologia (Anno Accademico 2012-13), in Master di Cure palliative di diversi atenei italiani e nei corsi di Educazione Medica Continua in varie realtà ospedaliere; nel 2008 ha ricevuto il Premio Terzani per l’umanizzazione della medicina. Ѐ membro e tutor dell’équipe di accompagnamento di Tonglen, di cui è presidente, ed è coautrice di due libri, entrambi editi da Amrita: insieme alla psichiatra Emilia Costa ha scritto giù le mani da Pierino: accompagnamento empatico dei bambini affetti da Adhd (sindrome da iperattivtà e deficit di attenzione), e insieme al veterinario stefano Cattinelli Tenersi per zampa fino alla fine. Accompagnamento empatico e cure palliative per gli animali alla fine della vita.

3) Edito da Ubaldini.

4) Cesare boni, dove va l’anima dopo la morte, Ed. Amrita.

5) gli studi su questa realtà sono raccontati dallo psichiatra francese Jean-Pierre schnetzler in scienza e reincarnazione, Ed. Amrita, e trovate gli ultimi studi sulle NdE (Near death Experiences, ossia “esperienze di premorte”) descritti dalla massima autorità mondiale sull’argomento, il dottor Pim van Lommel, nel suo Coscienza oltre la vita – La scienza delle esperienze di premorte, sempre edito da Amrita.

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